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Ott2021

Nota a margine della “riforma esportazione”. Che “cosa” è un «bene culturale»?

Nel chiudere (almeno per il momento visto l’ampiezza e la vivacità dell’argomento) il tema della circolazione internazionale delle opere d’arte accenniamo ad un’altra novità introdotta con la “riforma esportazione”. Pur essendo ormai trascorso del tempo dalla sua introduzione la persistente attualità dell’argomento è indubitabile quanto è indubitabile il fatto che il punto cruciale dell’intera materia – alla quale si rivolge questo approfondimento – è proprio l’ «individuazione» di una “cosa” come «bene culturale»: solo da quel momento il bene rientra nella categoria «patrimonio culturale», elevata al rango costituzionale, e solo da quel momento si applica la normativa di tutela (e dunque tutte quelle limitazioni al pieno esercizio del diritto di proprietà sul bene: dal divieto di uscita definitiva dal territorio nazionale, alla possibilità che lo Stato eserciti il diritto di prelazione in caso di compravendita, agli obblighi conservativi ecc. con conseguente significativa diminuzione del valore di mercato dell’opera).
Nella più volte citata l. 124/207, oltre all’elevazione da 50 a 70 anni dell’età della “cosa” che può diventare bene culturale, all’art. 176, lett. a) ha previsto l’aggiornamento degli indirizzi di carattere generale ai quali gli Uffici esportazione devono attenersi per la valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell’attestato di libera circolazione, ai sensi dell’articolo 68, comma 4, del D.lgs. 42/2004. Tali criteri sostituiscono quelli contenuti nella “storica” circolare del 1974 del Ministero della Pubblicazione Istruzione (precedente all’istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali che avvenne l’anno successivo).
Con D.M. 537 del 2017 sono stati definiti tali Indirizzi articolati in sei elementi di valutazione:
1) qualità artistica dell’opera;
2) rarità in senso qualitativo e/o quantitativo;
3) rilevanza della rappresentazione;
4) appartenenza a un complesso e/o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale, anche se non più in essere o non materialmente ricostruibile;
5) testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo;
6) testimonianza rilevante, sotto il profilo archeologico, artistico, storico, etnografico, di relazioni significative tra diverse aree culturali, anche di produzione e/o provenienza straniera.
Nella Premessa del Decreto viene segnalato che “la concorrenza fra più parametri tra quelli indicati contribuisce a rafforzare il ‘motivato giudizio’ richiamato dall’art. 68, comma 3, del D.lgs/2004” evidenziando la capacità del provvedimento di diniego all’esportazione, e di conseguenziale avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale, di incidere sui diritti della proprietà privata, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione.
Risulta dunque interessante approfondire la natura del giudizio che presiede all’imposizione del “vincolo” ovvero alla dichiarazione di interesse culturale (non solo in sede di esportazione).
La giustizia amministrativa si è più volte pronunciata sulla questione assai tormentata che qui introduciamo rinviando ad un successivo approfondimento.
Di recente, richiamando e confermando quanto deciso in precedenza, il Consiglio di Stato (Sezione VI, 7 giugno 2021, n. 4318) è intervenuto sul punto: «Il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità. L’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile” (Cons. Stato, VI, 4 settembre 2020, n. 5357).
Continua…

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